Abiti che bruciano: le cattive pratiche del sistema moda

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Nel post di fine aprile scorso dedicato a ‘Loved Clothes Last’, la fanzine #2 di Fashion Revolution, parlavo tra le altre cose dei diversi destini che toccano all’abbigliamento invenduto e il più brutale era quello di finire dritti nell’inceneritore. Immaginatevi che tristezza e che spreco! Chilometri di tessuto, magari pregiati se si tratta di abiti di alta gamma, insieme a tutti i tipi di decorazioni, dai bottoni alle zip alle applicazioni, per non parlare delle ore di lavoro di sarti e/o operai che hanno assemblato, cucito, tinto, ecc, il tutto dato alle fiamme, così.

A questo proposito è di pochi giorni fa la notizia, davvero sconcertante, che l’anno scorso l’iconico marchio britannico Burberry ha distrutto qualcosa come 28 milioni di sterline di merce tra abiti, accessori e profumi. 28 milioni di sterline! Ma c’è poco da stupirsi perché per i brand, e qui parliamo anche dei marchi del lusso, questa è una pratica abituale e la rivista inglese ‘Dazed and Confused’, in un articolo del 25 luglio scorso, ne spiega i motivi: c’è il fatto, ad esempio, che sia preferibile eliminare i prodotti piuttosto che ribassarli molto per preservare l’immagine esclusiva di un determinato brand. Se il mercato diventasse eccessivamente saturo di merce lussuosa a prezzo ridotto, ciò potrebbe avere un impatto negativo sul prestigio dell’etichetta in questione e questo perché i marchi hanno bisogno che i loro prezzi elevati sembrino giustificati e l’esclusività è una parte fondamentale di ciò. Poi c’è il discorso legato alla contraffazione; se una quantità sufficiente di articoli venisse venduta a un prezzo abbastanza basso, potrebbe finire nelle mani sbagliate alimentando un mercato che vale 450 miliardi di dollari.

Orsola De Castro

Sull’argomento è intervenuta Orsola De Castro, eco-designer e co-fondatrice di Fashion Revolution; prima di tutto “non esiste un modo eco-compatibile di bruciare i vestiti” e ciò è in parte legato ai materiali, “molti di questi vestiti contengono componenti come rivestimenti sintetici o cerniere e bottoni di plastica. Puoi bruciare la plastica, ma non diventerà mai cenere”. Questo solo per quanto riguarda la fase dell’incenerimento. Poi c’è tutto il resto. “La pratica di distruggere l’invenduto” continua De Castro “è una diretta conseguenza della produzione di massa, non solo Burberry ma anche molti altri marchi del lusso fanno altrettanto. Ogni anno vengono prodotti da 100 a 150 miliardi di capi di abbigliamento e, come risultato diretto, assistiamo a enormi quantità di surplus che non riguardano solo il capo finito che arriva in negozio ma tutta la filiera produttiva, quindi ciò che serve è maggiore trasparenza lungo tutta la catena di produzione, perché è proprio la mancanza di trasparenza che impedisce di capire esattamente quanti rifiuti e surplus sono creati, dove si producono, come vengono smaltiti e l’impatto che hanno sull’ambiente”.

Orsola De Castro afferma poi che per gli standard di Fashion Revolution, Burberry ha in fondo ottenuto punteggi ragionevolmente buoni in relazione all’indice di trasparenza, oltre a promuovere molte buone iniziative di sostenibilità. Ma qui parliamo di un intero sistema che ha bisogno di investire di più in efficienza, in soluzioni alternative: “dovrebbero essere adottati più metodi creativi come l’upcycling, mentre sarebbe auspicabile un passaggio dalla produzione e il consumo di massa a una produzione più moderata che porti a consumi consapevoli. Migliorare il modo in cui acquistiamo, manteniamo e smaltiamo i nostri vestiti è responsabilità di tutti e richiede un cambiamento nelle nostre abitudini di acquisto personali. Ma anche i nostri governi locali e ovviamente i marchi stessi hanno una grande responsabilità e possiamo incoraggiarli a fare di più in questo senso”.

Lo abbiamo detto tante volte anche qui a eco-à-porter e non smetteremo di ribadirlo: maggiore responsabilità da parte di tutti.

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