Primark aderisce alla campagna #GoTransparent

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A Primark shop in Hannover

Circa un mese fa ho parlato della campagna #GoTransparent, un’iniziativa lanciata da Human Rights Watch e International Labour Rights Forum insieme a Clean Clothes Campaign (in Italia Campagna Abiti Puliti), che chiedeva a diversi marchi d’abbigliamento e di calzature di pubblicare informazioni sulle fabbriche, compresi gli indirizzi e il numero di lavoratori, da cui provengono i loro prodotti. Molti dei marchi coinvolti hanno risposto prontamente alla richiesta, rendendo pubblica la propria catena di fornitura, mentre altri ovvero Forever 21, Urban Outfitters, Walmart, Primark e Armani si sono dimostrati più reticenti.

Fino a qualche giorno fa quando Primark, brand irlandese di grandi magazzini che ha sedi in tutta Europa (recentemente ha aperto anche in Italia) e negli Stati Uniti, ha finalmente aderito alla campagna pubblicando un elenco di tutti i fornitori collegati alla sua attività, con nomi e indirizzi di oltre mille fabbriche in 31 Paesi, insieme al numero di dipendenti che lavorano in ogni fabbrica e alla divisione di genere tra i dipendenti.

Paul Lister, a capo dell’Ethical Trade Team di Primark, ha dichiarato all’agenzia di stampa tedesca Reuters che i motivi della reticenza erano dovuti a questioni di concorrenza ma è certo che le pressioni ricevute dagli attivisti che, oltre a raccogliere più di 70.000 firme con #GoTransparent, hanno portato negli store del marchio delle scatole dorate con le firme raccolte, hanno sortito il loro effetto. “Primark finora non aveva mai rivelato informazioni sui siti produttivi dei propri fornitori, ritenendo che ciò potesse costituire per l’azienda un vantaggio commerciale. Considerando, però, che il 98% della fabbriche che producono per Primark lo fanno anche per altri brand e guardando anche al numero di retailer che rendono pubbliche informazioni sui loro fornitori, abbiamo deciso di condividere le nostre informazioni”. Queste le parole esatte di Lister che in passato è stato interpellato diverse volte per accuse rivolte al gigante irlandese della grande distribuzione, accuse che  riguardavano lo sfruttamento del lavoro minorile, soprattutto dopo l’uscita di un documentario della BBC intitolato ‘Primark: on the rack’. Ma da un’analisi approfondita il filmato non sembrava autentico per delle incongruenze, tanto che il canale televisivo si è dovuto scusare con il marchio per la cattiva pubblicità.

Ad ogni modo, ciò che Primark oggi rivendica non è solo di avere partner come l’Ethical Trading Initiative (ETI), ente britannico impegnato nella difesa dei diritti dei lavoratori in tutto il mondo e come il Better Work Programme dell’International Labour Organization (ILO), che si occupa del controllo degli standard industriali, ma anche che le fabbriche impegnate nella realizzazione dei suoi prodotti devono dimostrare, per il primo anno di collaborazione, di poter mantenere gli standard etici richiesti, così come gli standard commerciali in aspetti quali la qualità e la puntualità delle consegne.

Per avere comunque maggiori informazioni sulle politiche sostenibili di Primark potete andare sul sito del marchio alla voce ‘codice etico’, mentre aspettiamo al varco gli altri quattro brand che non hanno ancora risposto alla domanda “chi ha fatto i miei vestiti?”.

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