eco-a-porter

‘Dress the gap’, un vuoto da riempire

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“Per noi non è importante mostrarci ma percepirci, ancora meglio se lo facciamo felici nei nostri abiti”. Oggi comincio con una citazione che, a mio parere, racchiude concetto e stile del marchio di cui sto per parlare, Neurofashion, ideato da una psicologa esperta di scienze cognitive e appassionata di moda, Chiara Salomone, che va oltre la mera idea di abito, per riempire un vuoto che riguarda ciò che siamo e ciò che percepiamo in una società sempre più liquida, senza più confini netti.

‘Dress the Gap’ è la prima collezione di Neurofashion, concepita osservando un mondo dove le garanzie di stile e di ordine vacillano, dove luoghi e culture si sovrappongono creando una realtà frammentata, in cui l’abito ha il doppio ruolo di identificare l’evoluzione culturale e un tipo di società e al tempo stesso di rappresentarle.

E per Chiara Salomone non ci sono dubbi, quel ‘gap’ della collezione è il vuoto da sanare lì dove limiti e confini non esistono più e nemmeno misure e costrizioni; nasce così una comunità che si confronta e sperimenta, vestita di abiti che si conformano al corpo e alla sua perenne modificazione senza ricorrere a taglie, loghi, generi, stagionalità e occasioni d’uso.   

“In Neurofashion, dice Chiara Salomone, ci sono studio, etica e pensiero”, con l’obiettivo di offrire non solo un abito ma anche “uno spazio in cui l’abito diventa strumento e messaggio di benessere”; il marchio e insieme la sua prima collezione ‘Dress the Gap’ vogliono anche dare una risposta al bisogno di sostenibilità, che significa tra l’altro fare acquisti con cervello, guidandoci contemporaneamente nella consapevolezza che attraverso questi abiti vestiamo i corpi, gli diamo un habitat, un ambiente protetto dove vivere e quindi dove trasformarci.

Sostenibilità, poi, è attenzione all’uso dei materiali, che provengono da una filiera etica: cotone, seta e modal sono ricavati da fonti rinnovabili e sostenibili, utilizzati per dare forma a una serie di look morbidi e oversize, con pantaloni con chiusure a scomparsa che vogliono trasmettere non solo l’idea di ‘no size’ ma anche il concetto di un corpo vivo che cambia continuamente, inadatto a essere chiuso in una taglia.

Il tailoring dei capi spalla è urbano ed evoca le silhouette squadrate anni ‘80 con blazer, maglie e t-shirt dalle spalle larghe e dai volumi ampi, niente che stringa il corpo, ne lacci, ne cinture; e poi t-shirt lunghe e corte, trench e pantaloni cargo in organza di seta, caban con zip smanicati e legging.

In tutti i capi l’etichetta è posta all’esterno.

       

Wao – The Eco Effect Shoes, la rivoluzione che parte dal basso

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Parlare di sostenibilità non è semplice, credetemi. Tanto meno parlare di moda sostenibile. A maggior ragione oggi, che i marchi cosiddetti green vengono su come i funghi e le aziende fanno a gara per apparire più virtuose delle altre, come se fosse una competizione appunto e non una vocazione.

Quando scelgo di parlare di un brand, oltre a un certo gusto personale e all’estetica, perché l’occhio vuole sempre la sua parte e sarei ipocrita se lo negassi, cerco sempre di capire il ‘green thinking’ che c’è dietro, se è solo una patina verdognola (il famoso greenwashing) oppure se chi produce e fa ha davvero certi valori e si vuole adoperare per un cambiamento reale. E solitamente si capisce.

Michele Stignani, project manager di Wao

Come l’ho capito con Michele Stignani, project manager del marchio di sneaker interamente eco-sostenibile Wao – The Eco Effect Shoes, con cui ho avuto il piacere di fare una lunga chiacchierata sulle scarpe e intorno alle scarpe, scoprendo, come prima cosa, che il suo desiderio primario è quello di lasciare alla figlia di 6 anni un Pianeta più pulito. E siccome i figli sono pezzi di cuore, dalla sua nascita Michele ha sentito l’esigenza, lui da anni direttore commerciale e consulente nella moda ‘tradizionale’, di dare il proprio concreto contributo (avevamo sentito una storia simile con Javier Goyaneche di Ecoalf, ricordate?).

Il primo prototipo di scarpa arriva tra il 2016 e il 2017 dall’incontro di Michele con la designer Erika Moriconi, “che non crea per la moda, ma per trasmettere il sentimento più importante che la natura mi abbia insegnato: l’amore”, seguito nel 2018 da una campagna di crowdfunding su Kickstarter dall’esito positivo che permette di produrre le prime scarpe e di uscire successivamente con lo shop online.

Al duo di Wao si aggiungono strada facendo altre persone, dei “pazzi” come lui, li definisce Michele, che mettono anima e corpo nel progetto, perché ci credono, perché vogliono fare la differenza, perché “dopo anni a inseguire guadagni e utili per le aziende, ora è il momento di far fare utili al nostro Pianeta”. Nel gruppo anche l’art director Gianmarco Giacometti, autore del logo e dello sviluppo del prodotto.

Il team dei ‘pazzi’ di Wao

Ma vediamola un po’ da vicino questa sneaker interamente eco-sostenibile. L’idea è quella di una scarpa dall” effetto eco’ ovvero realizzata da materiali naturali, riciclabili o rigenerati, provenienti dalla terra e che alla terra ritornano una volta finito l’utilizzo.

La tomaia è in canapa grezza o tinta con estratti naturali derivati dalle piante, lacci ed etichetta in cotone organico, sottopiede in sughero e in fibra di cocco dalle caratteristiche anti-microbiche, traspiranti e totalmente naturali, suola è Go!Zero®, un prodotto tutto italiano in 99% gomma naturale brevettato degradabile nel compost. E il restante 1%? Si tratta di un eccipiente che a contatto con gli acidi del compost permette alle suole di degradarsi almeno dell’80% in due anni.

E una volta a fine vita, come e dove avviene il processo di smaltimento? Dress to live, la società che ha depositato il marchio Wao, si occuperà della gestione dello stesso ritirando le scarpe, separandone le parti per il compost e l’indifferenziato, mentre l’organico sarà dato da mangiare ai vermi. E così l’effetto eco compirà il proprio viaggio, un viaggio totalmente circolare, senza pezzi mancanti.

Dopo le sneaker in canapa, sono arrivate le Wao Nylong, il modello water-resistant in Econyl, il nylon rigenerato che conosciamo bene per averne parlato in diverse occasioni; ricordiamo che si tratta di un materiale ricavato da reti da pesca abbandonate negli oceani e recuperate, scarti di tessuto e plastica industriale e che ha le stesse caratteristiche del nylon vergine ma riduce dell’80% il proprio impatto sul riscaldamento globale. Per il resto, lacci in cotone organico, sottopiede in sughero e fibra di cocco e suola in gomma compostabile come sopra.

Siccome poi Wao è un progetto in divenire e ha questo effetto eco che vuole propagarsi come una rivoluzione, la mente dei suoi creatori è anch’essa in costante movimento, così Michele mi parla anche del prossimo prodotto: la calza circolare in fibre e tinture naturali, accompagnata da un talloncino con istruzioni per, a fine vita, trasformarla in un pupazzo o in un cattura-odori per il frigorifero o, se bucata o spaiata, inviarla per inserirla in un circuito che rammenda le calze per i senzatetto, che ne hanno sempre bisogno.

Il coinvolgimento di realtà sociali per lo smembramento e il riutilizzo dei materiali rientra pienamente nell’idea circolare di Wao, perché il ricircolo non sia solo fisico, materico ma anche valoriale, legato a una volontà di condivisione ben precisa che va oltre i meri reclami.

Last but not the least, il 4% del ricavato delle vendite viene devoluto ad associazioni no profit impegnate nella tutela degli animali e dell’ambiente; ad oggi sono Sea Sheperd, Travelers Against Plastic, African Conservation e Lega Antivivisezionista.

L’entusiasmo di Michele Stignani, come immagino del resto del team, è puro e coinvolgente e quando mi parla della demo che lanceranno per la settimana della Fashion Revolution, in cui si potrà fare un’immersione in realtà aumentata sullo stato dei nostri oceani (ahimè invasi dalla plastica), sono subito pronta a condividere la cosa, come sono stata pronta a parlare delle sneaker con l’effetto eco, che spero arrivi ad ognuno di voi.

Miomojo, la magia evocativa di una parola

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C’è una cosa che accomuna molte delle storie legate ai marchi etici che racconto qui, oltre al fatto che sono quasi tutte al femminile; l’avevo già accennato parlando di Inkanti di Valerie Cesaratto e di Trame di Stile di Claudia Aureli, lo confermo oggi introducendo Miomojo, il brand di borse vegane fondato da Claudia Pievani nel 2012.

Si tratta di storie di donne con una carriera solitamente ben avviata, con libertà economica e tanti altri vantaggi che, ad un certo punto, sentono l’esigenza di ‘andare oltre’, di fare qualcosa che sia una sorta di ‘missione’, ciò che comunemente viene chiamato ‘lo scopo della vita’.

Per Claudia Pievani questo passaggio coincide con la nascita di Miomojo che, già nel nome, vuole comunicare positività e benessere; il termine ‘mojo’ in inglese indica infatti quel particolare stato psicofisico energetico grazie cui ci si sente in grado di realizzare qualsiasi cosa, una sorta di magia che anima e ispira e che, associata all’aggettivo possessivo ‘mio’, rimanda alle origini italiane del marchio. La scoperta poi, quasi casuale, che in un dialetto del Sud Africa ‘mojo’ voglia dire ‘porta-fortuna’, è la conferma che si tratti della scelta giusta.

Un marchio che Claudia, da sempre appassionata di design, vuole fin da subito cruelty-free, ben consapevole che la pelle è il materiale più utilizzato per gli accessory luxury; trovare un’alternativa con lo stesso valore estetico, evitando ciò che all’epoca, parliamo di quasi un decennio fa, ha a che fare con prodotti sintetici che mancano di qualità e sono anch’essi fortemente inquinanti, non è facile. Però non impossibile.

Un’accurata attività di ricerca (definita “odissea” dalla stessa titolare) porta Claudia a utilizzare, prima l’R-Pet, cioè la plastica riciclata, poi a scoprire le eccezionali caratteristiche dei materiali ricavati, ad esempio, dalle bucce di mela, quella che viene chiamata pelle-mela ed è prodotta dagli scarti delle mele che vengono recuperati, essiccati e macinati ottenendo una polvere poi miscelata con poliuretano e tintura.

La borsetta realizzata con la pelle-mela

Poi è la volta della pelle di cactus, ottenuta cioè dalle foglie più mature del cactus, che vengono raccolte, pulite, triturate, fatte essiccare e poi mescolate con agenti chimici non tossici. Al composto ottenuto vengono date forma, texture e colore, mentre gli interni delle borse sono realizzati in cotone e poliestere riciclato dal PET.

…. e quella realizzata con la ‘pelle’ di cactus

Ma la ricerca di materiali innovativi, organici e riciclati è instancabile tanto che l’obiettivo di Claudia è di arrivare al 2022, quindi all’anno prossimo, con una produzione 100% sostenibile, ricorrendo alle reti da pesca riciclate, al vetro, alle bottiglie di plastica e, oltre agli scarti di mela e di cactus, anche ai fondi di caffè, agli scarti della produzione di vino, menta, mais e molto altro.

Il modello di business di Miomojo ingloba anche dei progetti charity a favore dei diritti degli animali; negli ultimi sette anni il marchio ha raccolto oltre 200.000 dollari per l’associazione animalista Animals Asia che, tra il resto, s’impegna per salvare gli orsi della luna dall’industria della bile. “Dopo essere stata in Cina e Vietnam e aver visitato il santuario di Animals Asia a Chengdu e Hanoi, racconta Claudia Pievani, vedendo con i miei occhi questi animali salvati da atroci sofferenze, che con coraggio si godevano una seconda vita dopo decenni di torture e prigionia, ho deciso di sostenere economicamente gli eroi che hanno reso possibile tutto ciò”.

Nel tempo Miomojo ha esteso il proprio sostegno ad altre organizzazioni benefiche come Mercy for Animals e FOUR PAWS, oltre a numerosi piccoli santuari per animali in tutto il mondo. Perciò è diventata da poco una società benefit, quindi integrando ai classici obiettivi di profitto, quelli sociali e ambientali; di recente l’impegno si è ulteriormente rafforzato aderendo all’1% For The Planet, l’alleanza internazionale tra aziende che devolvono almeno l’1% delle proprie vendite annuali a cause ambientali.

Claudia Pievani ha trovato in Miomojo il proprio ‘Ikigai’ ovvero quel magico punto di congiunzione tra ciò che amiamo fare (passione), ci risulta naturale (vocazione) ma si rivela anche utile al mondo (missione), senza trascurare il necessario riconoscimento economico (professione).

Tra i progetti futuri, la creazione di una linea di scarpe che abbiano le stesse caratteristiche delle borse ovvero design, rispetto e accessibilità ma anche una Fondazione Miomojo per animali e, last but not least, un rescue center Miomojo, che sarà sede della company, ma anche luogo di pace per animali salvati, nonché centro educativo per un futuro più gentile.

Tutte le immagini courtesy @Miomojo


Le storie, come gli abiti, sono fatte di ‘Trame di Stile’

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Più entro in contatto con realtà legate alla moda sostenibile, piccole o grandi esse siano, più mi rendo conto che, oltre a quei criteri imprescindibili per cui un prodotto può essere considerato etico, c’è una peculiarità che lo identifica e identifica il marchio o il designer che c’è dietro: il vissuto.

Per questo a noi di eco-à-porter piacciono così tanto le storie, perché sono quelle che ci raccontano meglio un brand sostenibile: la mamma o la nonna sarte che tramandano a figli/e e nipoti l’arte del fatto a mano, della precisione, del rammendo, l’amore coltivato fin dall’infanzia per la natura e gli animali che portano a fare scelte cruelty-free e rispettose dell’ambiente, un viaggio che fa scoprire antiche tradizioni, tessuti naturali, l’artigianato locale. Il capo o l’accessorio che diventano così espressione di quel vissuto, di quelle esperienze, acquisendo così un valore aggiunto.

Anche Trame di Stile è nato da una storia (e forse non è un caso che ci sia all’interno la parola ‘trame’), quella di un’imprenditrice di successo, Claudia Aureli, dottore commercialista, che dal settore in cui opera, quello alimentare, in cui già applica i principi legati alla cura e al benessere del corpo ovvero ‘ci si cura partendo dal cibo’, si sposta su quello della moda, spinta dal desiderio di esplorare altre modalità di espressione del proprio essere e dei propri punti di vista.

Il logo di Trame di Stile

Così, nel 2017 Claudia, già appassionata di tessuti e filati naturali e interessata alla canapa, mette in contatto un gruppo di persone incontrate casualmente, che investe proprio nella coltivazione di questa pianta in Romagna, con Mauro Vismara, titolare dell’azienda tessile milanese Maeko Tessuti, con il progetto di riportare ai vertici una filiera tutta italiana della canapa. Da cosa nasce cosa e nei tre anni successivi, il progetto legato alla canapa si intreccia con quello della nascita del brand Trame di Stile, con un logo che già condensa in sé lo spirito del marchio: un intreccio di filati nella tonalità del Terra di Siena bruciata, colore che esprime amore e rispetto, oltre che per la Terra come Pianeta, anche per la terra come terreno, fonte di sostentamento e di vita.

Dall’intreccio dei filati, ottenuti con i prodotti della terra, Trame di stile realizza i propri capi; canapa, ortica e cotone biologico sono i materiali attorno cui è costruita la collezione, tessuti vegetali caratterizzati da proprietà traspiranti, antimicrobiche, anti-raggi UV e termo-regolatrici, tinti con tonalità che vanno dai colori tenui e naturali di canapa e ortica all’ocra e indaco, carichi della terra, degli astri, del cosmo, al nero, vigoroso e totale.

Il tutto su linee fluide, che accarezzano gentilmente il corpo, bluse e cardigan morbidi, abiti ampi, pantaloni palazzo, su cui spicca la cura per il dettaglio che si traduce in arricciature delicate, ruche, volant, bande a contrasto come nel blazer doppiopetto in stile marinaro realizzato in canapa (immagine di copertina).

E così Claudia, con il suo brand tutto naturale, ha trovato il modo di esprimere se stessa nel modo in cui desiderava, con abiti che la rispecchiassero, che fossero in linea con i suoi principi e la sua personalità e insieme che avessero la capacità di rievocare quei tempi in cui un abito era per sempre, non si rovinava, non si scoloriva, semmai acquistava ulteriore valore con il passare del tempo.

Un passo indietro che rappresenta in realtà un passo avanti attento e consapevole, segno di stabilità e solidità in tempi che sembrano sempre più precari e fuggevoli. Teniamoci strette le nostre storie, che definiscono il nostro stile.

Tutte le immagini courtesy Trame di Stile

Id-Eight, pop coreano e made in Italy per sneaker sostenibili

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Devo avervi già raccontato di come, in mezzo alle difficoltà e all’angoscia per la situazione che stavamo vivendo, il periodo del lockdown (tra un po’ sarà già trascorso un anno!) abbia rappresentato per me un momento straordinariamente creativo, basti pensare alla challenge lanciata proprio in quei giorni.

Ancora più connessa ai social, poi, ho avuto modo di conoscere nuove realtà sostenibili che vedevano nella rete e soprattutto in Instagram, un buon modo di presentarsi tramite video call e webinar; di alcune di queste realtà ho già parlato, oggi ve ne presento un’altra, relativa al mondo della calzatura.

Si tratta di Id-Eight, marchio di sneaker sostenibili, cruelty-free e interamente made in Italy nato nel 2020 dallo stilista sud-coreano Dong Seon Lee e dalla product manager Giuliana Borzillo, duo creativo nella vita e nel lavoro. Brand freschissimo, quindi, che questa settimana, esattamente il 13 febbraio, festeggia il suo primo compleanno con incontri, corsi e dirette sulla moda sostenibile via Instagram e Facebook.

Il duo creativo Giuliana Borzillo e Dong Seon Lee

Giuliana e Dong Seon arrivano alla progettazione di queste sneaker dopo anni di formazione ed esperienza nel mondo della calzatura, consapevoli delle problematiche ambientali che affliggono il settore; il loro intento è quello di tracciare una strada di cambiamento positivo nel mondo della moda italiana progettando una start-up che, con approccio rivoluzionario, affronti lo spreco delle risorse e offra alternative produttive più sostenibili.

Il fatto che il marchio sia nato a ridosso della pandemia, non è stato sicuramente un fattore positivo dal punto di vista delle vendite ma Giuliana mi dice che “la situazione generale ha anche riportato le persone a un contatto più reale e autentico con la quotidianità, il che ha favorito una riflessione sul nostro modo di vivere e sull’impatto delle nostre scelte sul mondo e sulla società in cui viviamo. Ciò ha riavvicinato molto i consumatori a concetti come artigianalità, Made in Italy, sostenibilità e produzione lenta; c’è stata più voglia di informarsi e capire chi e cosa c’è dietro a un brand e di questo siamo molto felici, perché vuol dire che si stanno creando i presupposti per un sistema moda più etico e sostenibile per tutti”.

Id-Eight nasce come unione di ‘Id’, identità, coerenza, visione chiara del mondo e di Eight, otto, numero della circolarità e del ritorno. La mente va subito al concetto di economia circolare, di riuso, di qualcosa che ritorna, come i materiali per realizzare le sneaker, derivanti dalla trasformazione degli scarti della frutta: la pelle-mela e Vegea, che nascono dalla bio-polimerizzazione delle bucce di mela e delle vinacce cedute dalle aziende italiane, mentre Piñatex si ricava dalle foglie di ananas coltivati eticamente nelle Filippine. A questi si aggiungono l’uso del cotone riciclato e biologico certificato Gots per la fodera interna e del poliestere riciclato per i lacci e per gli inserti in lycra e mesh.

Le sneaker Id-Eight

Anche la struttura della collezione segue i principi dello slow fashion: un’unica linea pensata per uomo e donna, senza stagionalità, disancorata da logiche produttive banalizzanti e da ritmi forsennati, libera di evolvere seguendo l’estro creativo e la costante ricerca di nuovi sviluppi nel tessile sostenibile.

Hana e Duri sono i nomi dei modelli, il primo con suola runner, grintoso e sportivo, il secondo con suola a cassetta, da combinare allo stile urban. Un’essenzialità non aliena dal gusto per le tendenze, che si riverbera nel bianco e nero scelto per il logo e a cui si contrappone, nei modelli più eccentrici, l’esplosiva audacia dei colori fluo.

Nei modelli è fortemente impresso il background del designer Dong Seon Lee, cresciuto in Corea del Sud negli anni ’90, epoca dei primi fenomeni culturali legati alla musica K-pop (il pop coreano) e ai videogiochi, con l’aggiunta di suggestioni metropolitane che si traducono in colori neon e texture all’avanguardia. Hana Fluo è infatti il primo modello nato dall’estro dello stilista, che ha voluto coniugare un look urbano con l’estetica unisex e fluo.

Il modello Hana Fluo

Infine, il packaging del prodotto vuole dimostrare ancora una volta che la moda può diventare una pratica collettiva potente, capace di diffondere comportamenti virtuosi e consapevoli nella quotidianità. All’interno di ogni scatola di cartone riciclato, spedita con involucro 100% riciclabile, c’è infatti una bomba di semi, da piantare sul terrazzo, in giardino o in un’area spoglia della città, per attirare le api e contribuire alla crescita della biodiversità.

Immagini courtesy @Id-Eight

Dalle Ande all’Italia: l’incanto di un filo d’alpaca

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Comincio il mese di febbraio con un’altra bella storia che, come tutte le storie raccontate da eco-à-porter, ha la caratteristica di un’illuminazione, di un’epifania lungo un percorso più o meno prestabilito. Protagonista Valerie Cesaratto, nata in Francia da genitori italiani (friulani), un lavoro nell’ambito commerciale che prosegue anche quando si trasferisce in Italia e che conclude a causa del fallimento dell’azienda di cui è dipendente.

Segue un viaggio in Perù con il compagno, quei viaggi di piacere che si fanno spinti dal bisogno di staccare per fare contemporaneamente il punto: “partiti da Venezia diretti a Lima, ci siamo presto mossi verso Cuzco per scoprire la Valle Sacra degli Incas. Ci siamo fermati lì per una settimana. Alloggiavamo a Urubamba, una località a 2800 metri sul livello del mare; da lì abbiamo girato i paesini di Chinchero, un luogo speciale per l’artigianato tessile dove ho potuto ammirare il loro modo di lavare e tingere tutto in maniera naturale, cardare la lana di pecora e alpaca a mano e dove ho scoperto la fantastica fibra di baby alpaca, poco conosciuta e diffusa in Italia”. Valerie resta incantata dalla morbidezza e leggerezza di questa fibra, “una meravigliosa sensazione sulla pelle”.

Un gregge di alpaca

L’incanto di Valerie per la fibra di baby alpaca, che non identifica il pelo del cucciolo, come si potrebbe pensare, ma la particolare finezza, la convince a buttarsi in una “pazza avventura imprenditoriale”: in quel momento è senza lavoro e forse è il momento giusto per iniziare qualcosa di nuovo.

E’ così che nel 2018, attraverso una campagna di crowdfunding, nasce Inkanti, marchio che vuole unire la preziosità della fibra con l’unicità dello stile italiano e che vuole farlo in modo etico, coinvolgendo le comunità del luogo dove la lana è prodotta. Il pensiero di Valerie è infatti quello che il miglior modo di sostenere e aiutare un’economia locale a crescere sia attraverso il proprio lavoro e così inizia un’avventura che, attraverso un filo d’alpaca, unisce le Ande all’Italia.

Lo stile e il design dei capi e degli accessori di Inkanti sono concepiti da Valerie e la giovane designer Alessia in Italia per poi essere lavorati artigianalmente dai maestri peruviani nelle loro terre d’origine, autentici custodi dell’arte della tosatura e della lavorazione della lana di alpaca, che è una fibra naturale. “La grande tradizione artigianale peruviana della maglieria è la storia di Uomini e Donne, racconta Valerie, e per noi è fondamentale rispettare il loro lavoro, senza sfruttamento, poiché il lavoro è dignità e va remunerato al giusto prezzo. In questo modo, quando si acquista un capo Inkanti, si ha la consapevolezza che una parte del suo prezzo sia servito a contribuire concretamente allo sviluppo di queste comunità, creando società più prospere”.

Con il suo marchio Valerie Cesaratto abbraccia il movimento di Fashion Revolution, cercando in trasparenza e responsabilità di mostrare chi c’è dietro la realizzazione delle proprie collezioni:

Capospalla, ponchi e mantelle, abiti, maglieria e accessori hanno linee essenziali, risultano morbidi e avvolgenti e sono caratterizzati da tonalità naturali che vanno dal bianco al crema, dal marrone al grigio al nero, tante quante sono le sfumature del manto degli alpaca, 22 riconosciute ufficialmente ma ben il doppio, 44, se si considerano quelle intermedie.

Contrariamente a un ritmo di lancio regolare e stagionale, agli antipodi di una moda prodotta e consumata rapidamente, Inkanti trova la sua ragion d’essere nella proposta di abiti senza tempo, che trascendono le stagioni, mettendo in risalto la qualità e non la quantità e cercando così di sensibilizzare le persone a diventare più consapevoli nei loro acquisti.

La moda in 3D di Danit Peleg

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Scusate l’assenza, sto lavorando ad altri articoli e progetti e purtroppo non sono ancora una e trina ma oggi che ho un po’ di tempo voglio condividere con voi una bella scoperta che ho fatto durante le ricerche per uno dei pezzi che vi dicevo un attimo fa.

Preparando un articolo sulla stampa 3D nel settore del fashion, mi sono imbattuta nella designer israeliana Danit Peleg, pioniera della moda stampata in 3D, prima stilista al mondo, nel 2015, a creare un’intera collezione utilizzando stampanti domestiche 3D per il suo progetto di laurea presso lo Shenkar College of Engineering and Design a Ramat Gan, nel distretto di Tel Aviv. L’anno dopo è stata invitata dai Giochi Paralimpici a disegnare un abito stampato in 3D per Amy Purdy, una ballerina amputata a due gambe, che si è esibita alla cerimonia di apertura, fino a essere nominata dalla BBC nel 2019 una delle cento donne più influenti al mondo.

Amy Purdy con l’abito 3D di Danit Peleg – photo credits Marina Ribas

La designer vede nella stampa 3D, non solo uno strumento per offrire nuove opportunità nella moda e ispirare i giovani creativi, ma anche e soprattutto una tecnologia che possa ridurre drasticamente i rifiuti e l’inquinamento, fornendo un’alternativa sostenibile per il futuro in un settore tra i più impattanti. “Immagina un mondo, racconta Danit Peleg, in cui le persone acquistano file digitali di abiti stampati in 3D, li scaricano e li realizzano a casa, su misura, senza produrre rifiuti”. Perciò lei e il suo team lavorano incessantemente, sia per migliorare la qualità dei materiali disponibili, assicurandosi che assomiglino a tessuti esistenti di alta qualità, come la seta e il lino, sia collaborando con le aziende di stampanti 3D per rendere il processo creativo più fluido possibile.

Ma com’è cominciata l’avventura di Danit? Con uno stage a New York, dove ha lavorato per una casa di moda, aiutandoli nella realizzazione della loro collezione 3D, una vera impresa, perché utilizzavano grandi stampanti industriali e la situazione era molto stressante, perché ogni abito costava circa 20.000 dollari e si trattava più che altro di abiti-scultura composti in una plastica fragile che si rompeva a ogni movimento delle modelle. Tornata in Israele, Danit riceve da un amico una collana fatta con una stampante 3D e le viene l’illuminazione: se con una stampante casalinga si può stampare una collana, perché non un abito?

Il percorso della designer, dopo la collezione realizzata per la tesi di laurea, prosegue tra ricerca incessante e creazione di altre collezioni, quasi sempre ispirate all’arte classica, come ‘The Birth of Venus’, la seconda collezione, in cui è incluso anche l’outfit di cui parlavo prima per la ballerina paralimpica Amy Purdy e una giacca che è disponibile sul sito della designer e può essere personalizzata e stampata su ordinazione.

Poiché ogni singola giacca impiega circa 100 ore per essere stampata, il capo, chiamato ‘Imagine’, fa parte di un’edizione limitata di soli 100 pezzi, ognuno numerato e venduto a 1.500 dollari. L’esterno della giacca è stampato al 100% in 3D ed è fissato a una fodera in tessuto; è anche possibile scegliere una parola da stampare, sempre in 3D, sul retro. Le giacche vengono stampate in Spagna ma assemblate e spedite da Tel Aviv, dove vive Danit.

A differenza della produzione tradizionale, il processo di stampa 3D produce zero rifiuti e nessun materiale aggiuntivo. Danit utilizza prevalentemente il Filaflex, uno dei materiali più elastici esistenti sul mercato oggigiorno. È molto forte ma anche morbido al tatto e permette, se combinato con altri tessuti dalla struttura flessibile, di ottenere una fluidità e una sensazione piacevoli al contatto con la pelle.

Un’altra creazione 3D di Danit Peleg – photo credits Daria Ratiner

Dopo aver creato il capo al computer, la designer apre tutto su un software di modellazione 3D, affinché ogni parte si adatti alla misura di stampa, con anche la possibilità di scegliere una taglia specifica, anche per ogni singolo pezzo: se per esempio una persona ha una taglia piccola ma le braccia lunghe, si può modificare la lunghezza delle maniche, senza alterare le altre misure.

E’ senza dubbio un processo affascinante, che cambia radicalmente l’approccio creativo ma anche quello dell’acquisto; e se un giorno fosse proprio così, se avessimo tutti noi la possibilità di diventare designer, di scegliere, comprare e scaricare il file di un abito e di stamparcelo a casa? Vi piacerebbe?

Di certo si eviterebbero tanti sprechi. Avremmo una catena di fornitura super trasparente e cortissima. Sapremmo tutto dei materiali. Ma cambierebbe anche il ruolo dei creativi. Dell’esperienza di acquisto e tanto altro. Senza contare il fine vita delle materie utilizzate per la stampa, trattasi pur sempre di bio-plastiche, anche se anche in questo campo la ricerca sta facendo passi avanti con alternative sostenibili provenienti da scarti dell’agricoltura. Staremo a vedere.

Un giorno, comunque. Per adesso, pensiamoci su.

L’alfabeto-manifesto di Stella McCartney

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Mi ero ripromessa di parlare dell’alfabeto-manifesto di Stella McCartney a ottobre scorso, quando erano appena andate in scena le sfilate parigine e qui avevo raccontato dei diversi modi dei designer di reinventare, in modo sostenibile, gli show delle nuove collezioni.

Poi si sono accavallati altri post e, siccome faccio tutto io, non manco mai di ricordarlo, solo ora, imbattendomi in un articolo di giornale che ricorda che l’anno prossimo la McCartney celebra i 20 anni del suo brand, mi è tornato alla mente il suo prezioso alfabeto di cui volevo parlarvi.

Quindi, appunto, quale migliore modo di festeggiare 20 anni di carriera e soprattutto di impegno per una moda etica, con un alfabeto illustrato da 26 artisti, tra cui Jeff Koons, Cindy Sherman e la stessa madre della stilista, la fotografa Linda McCartney, in cui ogni lettera indica un elemento della filosofia green della designer.

All’alfabeto McCartney ha dedicato la collezione primavera/estate 2021, dove ogni look rappresenta uno dei vocaboli; c’è la A di Accountable (responsabile), la B di British, la C di Conscious, la D di Desire e poi la H di Humor, la N di Nature, la S di Sustainability, la T di Timeless (senza tempo) o la Y di Youth (gioventù) fino alla Z di Zero Waste (nessuno spreco).

Primavera/estate 2021 by Stella McCartney – courtesy Imaxtree

Il manifesto ha preso forma durante la pausa forzata del lockdown, usata per riflettere su ciò che definisce il marchio e sui pilastri su cui poggiare l’ulteriore crescita futura: “Il manifesto A TO Z, spiega McCartney, è un’idea nata durante i primi giorni di isolamento a Londra, quando ho avuto il tempo di fermarmi e riflettere su ciò che conta davvero. Ho trasformato in parole ciò che amiamo, sappiamo e crediamo della moda, un alfabeto guida per assumere ancora di più la responsabilità dei nostri valori, di ciò che facciamo e di dove vogliamo andare, producendo capi sempre più desiderabili e sostenibili e che possano essere amati per sempre. Riflette la nostra coscienza ambientale, tutto ciò che abbiamo imparato, le partnership che abbiamo stretto e i cambiamenti che abbiamo apportato, ciò che realizzeremo e per cui continuiamo a lavorare”. 

Primavera/estate 2021 by Stella McCartney – courtesy Imaxtree

Così, la collezione primavera/estate 2021 traduce in materiali le linee guida dettate dall’alfabeto: c’è il cotone biologico, il lino naturale, il legno certificato, la lana tracciabile e il nylon rigenerato Econyl per la linea Stellawear che fonde lingerie e swimwear. E poi scarpe (con le infradito Lylo dalla maxi-suola fatta con il 50% di materiale riciclato) e borse vegane e un occhio al riuso con i top fascianti realizzati con pizzi ricavati dalle collezioni passate. Il tutto senza perdere di vista i codici estetici del marchio, come il contrasto tra i tagli classici e le silhouette fluide, la sartorialità british, l’ispirazione sportswear.

Il 2021 è alle porte e, nell’attesa di una primavera/estate che ci liberi finalmente dalle restrizioni dell’odiato Covid, studiamoci un po’ questo alfabeto, una forma diretta, chiara e anche molto elementare di quali sono i fondamenti della moda etica, dei suoi principi, quelli che Stella McCartney segue dal primo giorno della sua carriera e che hanno aiutato a sdoganare la sostenibilità nel mondo del fashion tutto.

‘About Alice collection’

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‘Alice’, ‘Alice nella città’, ‘Alice non abita più qui’ e credo potrei andare avanti ancora a elencare pellicole che includono il nome ‘Alice’. E poi c’è il meraviglioso ‘Alice nel paese delle meraviglie’, uno dei miei romanzi di formazione, anch’esso poi diventato pellicola. Alice ispira, si potrebbe dire.

E allora Alice Casarin ha fatto bene a chiamare la sua linea About Alice perché parte con l’aura giusta. Conosco Alice da molti anni; veneta ma di stanza a Bologna, lavora da anni nel mondo della moda come stylist e designer e, da circa due anni, come fashion consultant.

Alice Casarin

Da poco ha intrapreso questa nuova avventura con il marchio About Alice che, come lei stessa dice, “è nato dalla voglia di riappropriarmi dopo tanto tempo di sensazioni ed emozioni tutte mie”.

Alice ha passato anni, e ancora lo fa, a progettare, supportare e coordinare le linee d’abbigliamento dei suoi clienti, seguendo le loro esigenze, adattandosi a ciò che ovviamente rappresenta il loro target di donna, incluse le esigenze commerciali ed economiche.

Forse proprio per questo Alice ha sentito l’esigenza di distaccarsi un poco dalla logica della maggior parte dei brand di fascia medio/economica, che punta a una produzione sempre più veloce, di basso budget e usa e getta seguendo il trend del momento e spingendo all’acquisto di capi che l’anno prossimo, ad andare bene, non si porteranno più.

E decisamente per questo la logica di About Alice va in tutt’altro senso, ovvero recuperare quei tessuti, quelle logiche di produzione lente e manuali che la moda di oggi sembra non supportare più. 

Ma non solo; con il suo marchio la designer vuole esaltare quella femminilità che oggi “non va di moda”: la donna nella sua naturalezza, nella sua semplicità, nella sua voglia di vedersi bella ma senza l’esigenza di approvazione, matura nelle sue scelte di vita, sicura della propria personalità, fragile ma forte, sensibile ma indipendente e coraggiosa.

Pantalone gessato in viscosa, top di pizzo, maglioncino misto lana, capi comodi e funzionali by About Alice

Lontana dagli assurdi canoni estetici di perfezione televisiva e social media tra palestre, ritocchi ed esibizionismo sfrenato – tra luoghi comuni che dividono la donna tra casalinga e manager – o di femminilità negata e adattata a una visione appiattita di assenza di scelte, la donna di About Alice piace per bellezza, personalità, naturalezza, sensualità innata.

E poi About Alice parla naturalmente di Alice stessa, di una personalità ben definita. “Non è un brand asettico studiato a tavolino, afferma la stessa designer, è una filosofia di vita, un pensiero, un’estetica nata dalle mie esperienze. Se compri About Alice, compri una cosa che mi è nata in testa un giorno e mi ha entusiasmata e già potevo immaginarla addosso a quelle come me. Ho preso un pezzo di stoffa e l’ho fatto fare ed è un capo unico che finirà di sicuro nelle mani di chi lo capisce”.

Il messaggio di Alice è proprio questo: mettetevi un capo d’abbigliamento perché vi rappresenta, perché condividete quello che c’è dietro, non perché lo ha messo quella tizia su Instagram!

E conclude con un appello che anche noi condividiamo: “in un periodo difficile come questo, dove una pandemia rischia di mettere in pericolo molte piccole aziende, chiedo alle persone di non arricchire le multinazionali ma dirottare i loro acquisti su realtà più vicine e sostenibili. Comprare meno, comprare meglio”. 

Centore, c’era una volta un abito …

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Di Federica Centore ho sentito parlare la prima volta quest’estate, ad agosto, da ‘La Marchigiana’ alias Daniela Diletti, di cui avevo seguito il seminario sulla realizzazione di un sandalo artigianale, poi trasformato in reportage per il blog.

Parlando di upcycling e di recupero di materiali e di vecchi abiti, Daniela mi aveva fatto appunto il nome di Federica Centore, che a Formia, provincia di Latina, mentre studiava lingue orientali, si è trovata a fare la costumista per caso e ha capito che cucire le piaceva di più che parlare cinese e giapponese. Così, dopo anni in cui si è occupata di vintage e upcycling, lavorando anche in diverse sartorie, ha dato vita al proprio progetto di sartoria sperimentale, che ha chiamato con il suo cognome, centore.

Federica al lavoro

E allora non potevo non contattarla, Federica, e dedicarle un pezzo, anche perché, come sempre quando presento un nuovo designer, è venuta fuori una bella storia di passione, resilienza e anche di umiltà, che fa dire a Federica, quando risponde alla mia proposta di presentarla nel blog, “io al momento non ho neanche più il sito, neanche in costruzione, ho solo come riferimento Instagram e Facebook, lo so che è vergognoso, ma ho una figlia e altri lavori e sono sola a gestire tutto e guardando il tuo blog vedo che parli di brand molto ben strutturati e non so se io che sono così piccola vado bene”.

Certo Federica, vai benissimo! Anche noi siamo ‘piccoli’ e anche noi, anzi, dovrei dire anch’io, perché sono sola a fare tutto come te, condivido gli stessi tuoi valori e cerco di diffonderli, ragion per cui, ai marchi ‘più strutturati’ ne alterno altri piccoli e/o auto-prodotti, che forse, proprio per determinate caratteristiche, hanno un valore maggiore, squisitamente ‘amatoriale’.

E allora Federica mi dice che il suo “mood è antico, di quando si facevano le cose senza un mood”, da qui l’idea di dare il suo nome al progetto, senza tanti fronzoli e sognando un futuro come i grandi marchi che hanno iniziato con una piccola bottega a conduzione familiare, tipo Fendi, Gucci, Trussardi, ma anche come Donatella Rettore. Sì, perché i riferimenti pop per Federica sono immancabili, le vengono da una vena auto-ironica, dato che il suo laboratorio è per ora un semplice scaffale in un angolo di casa, smontabile e portatile perché da quando ha cominciato a cucire non c’è stato un anno in cui non abbia traslocato. Ma come tutte le cose preziose che si portano dietro in un trasloco, anche centore resta un punto fermo che prima o poi si stabilizzerà per ingrandirsi. 

Il concetto del marchio è quello che si può produrre cose belle e indossabili anche partendo da vestiti che ci sono già. “Il mondo esplode di vestiti, dice la designer, c’è tantissimo materiale da poter sfruttare e il mio goal è quello di mostrarlo alle persone in modo che comincino a guardare ai vecchi vestiti come Possibilità, non come immondizia. Quando consegno un pezzo tutti si innamorano proprio dei dettagli lasciati dalla forma che il capo trasformato era, le persone si sentono parte di una storia e continuano a raccontarla indossando una ‘Camic’era’ o un pezzo unico ‘Rifatto da centore’. Per questo il 90% dei miei lavori è su commissione, mi piace la comunicazione con le persone, mi piace ascoltarle e capire di cosa hanno bisogno, mi piace coinvolgerle nella sfida, perché il risultato non è mai definito fin dall’inizio, ogni pezzo varia a seconda dal capo da cui si parte, soprattutto quando ‘upcyclo’ per un pezzo unico. C’è bisogno di una grande fiducia”.

Poi, continua Federica, “mi piacerebbe un giorno formare delle sarte col mio metodo per poter garantire un’offerta più ampia e più veloce, dato che al momento sono sola a gestire tutto e purtroppo cucire ha bisogno di tempo, ma nonostante le difficoltà vado sempre avanti e c’è una nicchia di persone che aspetta con pazienza ed entusiasmo e questo mi rende davvero orgogliosa, perché quello che offro sono i vestiti e gli accessori che ho iniziato a fare per me, per sentirmi bella e diva, ma anche comoda. Allo stesso tempo coi miei vestiti volevo comunicare la mia filosofia di vita del guardare oltre gli anni che ha un vestito (o un oggetto) e imparare a conoscere il Valore delle cose”.

Federica indossa una delle sue ‘Nekutie’

Quando dieci anni fa la designer ha cominciato a realizzare le prime ‘Nekutie’, cioè le fasce ricavate dalle cravatte, l’ha fatto perché s’innamorava delle sete e le faceva male al cuore pensare che andassero buttate, c’era così tanto lavoro dietro: chi aveva pensato al pattern, chi prodotto la seta, chi l’aveva tessuta, chi ne aveva tagliato la forma, chi cucita a mano.

Federica racconta anche che quando recupera qualcosa di bello, le sembra di stringere le mani di chi ha lavorato prima di lei e spera che chi troverà una sua creazione tra 50 anni penserà la stessa cosa, perché qualcosa di bello è bello per sempre. Non crede di essersi inventata niente di nuovo, si è sempre usato quello che c’era per produrre, anche gli stessi materiali che usa sono molto comuni, ma è ciò che nasce dalla sua visione a essere nuovo, lei dice orgogliosamente che sono vecchie cravatte, vecchie camicie o vecchi abiti, “ma potrei anche non farlo, perché solo un occhio esperto saprebbe riconoscerlo, ma mi piace che le persone si sentano parte di questa community attenta al mondo anche tramite ciò che indossano”. 

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