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L’Up-Fashion di Francesca Marchisio, l’abito nell’abito

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Francesca Marchisio è un’altra eco-designer che seguiamo da un po’, ci piace la sua idea di abito trasformabile e reversibile, che racchiude più capi in uno, con un occhio al design industriale.

Il suo ultimo lavoro, la collezione autunno-inverno 2022 che ha sfilato ad Altaroma, ha inaugurato un nuovo progetto, Up-Fashion, nato per aggiungere nuove funzionalità al valore di un capo già esistente, con il concetto base che gli abiti sono espressione della nostra personalità e accompagnano la nostra evoluzione, quindi necessitano di cambiare e trasformarsi insieme a noi.

Up-Fashion, cui è stata appena dedicata una pagina nel sito della designer, è promosso e co-creato da Francesca Marchisio insieme ad altre donne di talenti, età e personalità diversi e si traduce in workshop pratici durante i quali i capi di ognuna vengono ridisegnati dopo un processo di empatia, una collaborazione creativa che segue la linea stilistica di Francesca ma al contempo estremamente personalizzata e unica.

Il risultato finale è la creazione di un nuovo modello, unito a tessuti e forme altrettanto nuovi ma che mantiene la sua essenza, conservando ricordi e storie.

Il primo workshop di Up-Fashion si è tenuto il mese scorso a Reggio Emilia presso l’atelier della designer, il secondo sarà a Torino a maggio, con data ancora da definirsi e anche in quest’occasione i partecipanti, attraverso una sessione teorica sul concetto di equilibrio tra forme e materiali, prenderanno consapevolezza del valore della trasformazione di quanto già esistente e in seguito potranno richiedere una proposta ‘up-fashion’ sul proprio capo.

E l’ultima collezione di Francesca Marchisio, dal titolo ‘Movement Ecocentrique’, è proprio, come dicevamo in apertura, il manifesto del concetto di ‘up-fashion’, di tessuti e abiti di qualità senza fine, trasformabili nel tempo, la messa in pratica dei valori della moda circolare ovvero modelli reversibili progettati per durare oltre le stagioni con fluidità di genere e di taglia, materiali sostenibili e recupero di giacenze.

‘Movement Ecocentrique’ è un invito a cambiare la nostra prospettiva da ‘Ego a Eco’; ci vestiamo per comunicare con gli altri e scegliamo i nostri abiti con un atto di consapevolezza, noi siamo ciò che indossiamo, noi siamo il ‘movimento’ per trovare nuovi equilibri: gonne scintillanti abbinate all’opacità confortevole dei gilet da pesca o dei coat oversize, la pelliccia in pura lana che rende reversibile ogni cappotto e che, se prodotta in modo responsabile e cruelty-free, è una fibra che può sostituire acrilici e poliestere.

E poi ecco la canapa, adatta anche in inverno per le sue proprietà termoregolatrici e il cotone ‘tela olona’, creato in Italia centinaia di anni fa, naturalmente resistente all’acqua e al vento grazie alla sua fitta armatura, mentre i pezzi unici ‘wastecouture’ sono realizzati con paillette di tessuto ritagliate da scarti di produzione.

Ultima cosa ma non meno importante, il progetto Up-Fashion era in realtà già presente nell’ultima collezione estiva di Marchisio e i capi realizzati sono stati poi indossati dai ballerini protagonisti del corto ‘The Movement’, che ha vinto e sta vincendo diversi riconoscimenti e che potete vedere qui sotto:

Scritto e diretto da Inês von Bonhorst e Yuri Pirondi – concetto e fashion design Francesca Marchisio

Tiziano Guardini ci racconta una fiaba

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Di Tiziano Guardini mi sono occupata fin dagli albori di questo blog; scoprirlo e seguire il suo percorso è stato ed è tuttora stimolante, lui eco-designer impegnato seriamente in una moda il più possibile sostenibile, attenta soprattutto all’aspetto cruelty-free.

Così eccoci a un nuovo capitolo della sua storia professionale, la collezione per il prossimo inverno, che già dal titolo, ‘La Fiaba’, ci porta in un mondo magico, in cui tutti noi vorremmo probabilmente vivere in questo terribile momento.

Un momento in cui sarebbe da scrivere una nuova storia, di un presente e un futuro diversi e ‘La Fiaba’ proprio a questo serve, a immaginarli e a poi a renderli concreti, i sogni che facciamo.

Ecco allora che le parole di questa ‘fiaba’ prendono forma e diventano abiti, metafora di un tempo che passa senza passare, come quello fiabesco, ma in cui gli insegnamenti del passato diventano tesoro per ciò che si costruisce, per ciò che si crea.

Alcuni dei capi realizzati per ‘La Fiaba’, i materiali e la tecnica per costruirli, come ad esempio i piumini, vengono da altri piumini e giacche a vento non più utilizzabili e ricondizionati, i cappotti sono in lana rigenerata e sulle loro superfici prendono forma nuove trame, paesaggi, connessioni.

La collezione diventa così una raccolta di fiabe illustrate, grazie anche alla mano dell’artista Luigi R. Ciuffreda, non nuovo a collaborazioni con Guardini.

“Creare e concretizzare progetti che mirano alla valorizzazione delle risorse, al preservarne la loro funzione sia nel breve ma soprattutto nel lungo periodo è quello che amo fare. Permette di riallinearmi alla natura in cui ogni cosa che produce ha un valore sempre” dice Tiziano Guardini “in questo caso abbiamo fatto di più del semplice upcycling, li abbiamo trasformati in arte, abbiamo creato dei ‘wearable painting’ che ci portano nel mondo delle fiabe”.

La conferma dell’impegno e dell’amore verso la natura viene anche da un evento cui Tiziano ha partecipato pochi giorni fa, il 21, che non era solo il primo giorno di primavera ma anche la Giornata Internazionale delle Foreste; il designer ha infatti presentato ‘Into the Forest’, capsule collection ispirata alle pulsioni vitali della foresta, rappresentata dalla cellulosa, materia del legno, trasformata in fibra o meglio Refibra.

Si tratta di Tencel by Lenzing, di cui abbiamo parlato più volte, un filato che nasce da foreste certificate e in questo caso prodotto con tecnologia Refibra, che si basa sull’impiego di una percentuale di materia prima rigenerata.

La collezione ‘Into the Forest’ sarà in vendita a partire dal 22 aprile, Giornata Mondiale della Terra, presso la boutique Banner a Milano, la stessa dove è avvenuta la presentazione dell’altro giorno.

Per Tiziano, utilizzare questi tessuti, ottenuti secondo un sistema che rispetta l’ambiente e soprattutto i nostri ‘polmoni verdi’, è un modo per fare pace con questi elementi naturali troppo spesso maltrattati, per dirgli “guardate, c’è chi si impegna per far andare meglio le cose”.

La nuova collezione di +Three°°° ha l’Africa addosso

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Del marchio di borse +Three°°° vi avevo già parlato l’anno scorso, in occasione della Giornata Mondiale degli Oceani, cui tengo particolarmente. Allora il brand toscano aveva prodotto una serie di borse limited edition in Seaqual Yarn, un tipo di poliestere riciclato post consumo che contiene l’Upcycled Marine Plastic di Seaqual Initiative, l’organizzazione che promuove la salvaguardia delle acque mondiali a partire proprio dalla loro pulizia. 

L’ultima collezione di +Three°°°, ‘Afra’, è realizzata con Ethical Fashion Initiative (EFI), il programma di moda etica dell’ONU che sostiene le comunità locali dei Paesi in via di sviluppo; al centro del progetto ‘Afra’ c’è, e il nome la richiama, l’Africa, nello specifico il Burkina Faso, da cui provengono sia il cotone utilizzato che la manualità delle artigiane coinvolte nella realizzazione dei tessuti che compongono gli otto differenti modelli di borse.

Ci sono le classiche tote, poi le baguette, le cross-body, le pochette, tutte a rendere protagonista il tessuto in tela grezza di cotone originario del Burkina Faso, tinteggiato secondo un procedimento antico; ogni creazione si distingue per cromie sempre diverse, disegni unici e personali, rifiniture a mano e per gli assemblamenti materici fatti in Italia da artigiani toscani. La collezione si adatta a ogni stile ed occasione d’uso: casual, elegante, da città, da lavoro.

‘Afra’ contribuisce al rafforzamento del settore tessile in Africa, che a sua volta porta alla creazione di posti di lavoro e a opportunità di sviluppo sostenibile per il Paese e le comunità locali.

E se qualcuno di voi si chiedesse perché il nome ‘+Three°°°’, ecco la risposta: viene da un rapporto dell’United Nation Environment Program (UNEP) che delinea uno scenario in cui entro il 2050 il riscaldamento globale supererà i tre gradi centigradi, innescando alterazioni irreversibili dell’ecosistema globale.

Il marchio esorcizza questa minaccia impegnandosi a realizzare capi artigianali progettati per resistere nel tempo e ridurre l’impatto ambientale, cui si unisce, come abbiamo appena visto, un impegno di inclusività sociale che travalica i confini nazionali.

Ziza (Style Habits) che visse due volte

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In un momento così cupo e disperato per noi tutti, in cui siamo passati dalla guerra contro il Covid (che comunque non è stato ancora debellato) a una guerra reale, fatta di bombe e carri armati, alle porte di casa, cerchiamo di fare il possibile per continuare a coltivare e diffondere bellezza. Oggi lo facciamo parlando di un marchio artigianale italiano che, lo vedrete, oltre alla sostenibilità a tutto tondo, ha anche la caratteristica più che mai attuale della resilienza, come ci insegna il nostro PNRR.

Giusy Leo Imperiale al lavoro con Piñatex

Si tratta di Ziza Style Habits, conosciuto e apprezzato grazie al tramite diretto con la sua fondatrice, Giusy Leo Imperiale, ex promotrice finanziaria pugliese che, dopo la nascita della seconda figlia, ha deciso di lasciare il lavoro per dedicarsi a un’attività in proprio incentrata sulla manualità, cosa da sempre nelle sue corde. Appassionata di vintage, Giusy comincia a lavorare a casa affiancata da una sarta, producendo maglieria stampata e altri articoli fatti a mano e battezza il marchio ‘Ricomincio’, proprio per sancire l’inizio della sua seconda vita professionale.

Tra i prodotti realizzati ci sono anche delle borse d’ispirazione vintage ma al momento di creare il lookbook della collezione, Giusy si rende conto che ‘Ricomincio’ stona e decide di cambiare il nome in ‘Ziza’, che è poi il nomignolo con cui la chiamano i nipoti, essendo la zia più giovane.

Il primo logo/marchio di Ziza, ‘Ricomincio’

Ziza Style Habits nasce così, tutto in famiglia, nel 2015, in un momento in cui fare moda sostenibile e usare materiali alternativi è ancora considerato roba da pionieri, almeno qui in Italia, quindi appare azzardatissima e soprattutto coraggiosa la scelta di Giusy di realizzare le sue borse, su cui la produzione si è concentrata, con Piñatex, la simil-pelle ricavata dalle foglie di ananas, di cui abbiamo parlato per altri brand che ultimamente ne fanno uso.

Allora, utilizzare un materiale del genere, appare una scelta davvero innovativa, considerando oltretutto che Ziza non è un big brand ma una piccola realtà artigianale tutta made in Italy; Giusy però non sbaglia, anzi, la sua lungimirante intraprendenza la premia con una repentina attenzione da parte di Ecocentrica di Tessa Gelisio, Snap Italy, Sportswear International e di punti vendita in corner prestigiosi come Coin Excelsior Roma/Venezia e finisce anche a New York in un temporary store.

Le borse, di ispirazione vintage, hanno un design lineare ma, oltre al valore aggiunto della simil-pelle di ananas, si trasformano grazie ai cordoni in dotazione: si possono portare a mano o a tracolla o, da pochette, diventare uno zainetto, il tutto realizzato da artigiani pugliesi.

Ziza Style Habits, come dicevamo, prende il volo, anche oltreoceano, e si colloca in una fascia medio-alta, ma comunque accessibile; i problemi sorgono quando, per rispondere alle richieste degli store che vendono Ziza, Giusy si trova a dover ‘fare magazzino’ e ad acquistare molta Piñatex, che ha il suo costo. Varie vicissitudini, tra cui un furto nello store newyorchese, spingono Giusy a soprassedere e accantonare a malincuore il proprio brand e questo poco prima dello scoppio della pandemia.

E qui, durante gli ultimi due difficili anni, che comincia la seconda vita di Ziza Style Habits; Giusy si trova con una gran quantità di materiale inutilizzato ma ancora bello e prezioso e decide di rimettersi in gioco senza più delegare la produzione; diventa l’artigiana di se stessa, rallenta i ritmi e cuce con le sue mani i suoi prodotti sempre made in Puglia, realizzando anche splendidi patchwork proprio con le rimanenze, di varie metrature e colori, che ha a disposizione in magazzino e abbinandoli anche ad altri tessuti, sempre di giacenza.

Tra i nuovi modelli di Ziza Style Habits le borse con gli skyline delle città del mondo – courtesy Ziza Style Habits

Oggi Giusy ha ripreso fiducia in se stessa e nel suo marchio, che ha acquistato un ulteriore valore aggiunto: l’utilizzo delle rimanenze per nuove creazioni. Un po’ come l’araba fenice che rinasce dalle proprie ceneri, Ziza Style Habits si ripresenta sul mercato ancora più sostenibile di prima, resiliente e al contempo sofisticata come la clientela cui è rivolta.

Trovate Ziza Style Habits su Instagram @ziza_style_habits e su Etsy www.zizastylehabitsstore.etsy.com

Bethany Williams, tributo ai maker

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Bethany Williams, eco-maker designer inglese, la tengo d’occhio da un bel po’, mi piace il suo lavoro, mi piace il suo coniugare moda e sociale con un approccio tutto suo, fatto di colori, patchwork e forme che ben si adattano a donne e uomini per lo stile gender fluid, anche se lei sfila abitualmente per il menswear ed è anche per questo che sta cercando di rendere più minute le silhouette, perché ben si adattino anche alle donne.

La sua è una moda inclusiva che, come raccontava in una recente intervista a Vogue, si lega per ogni collezione a un diverso progetto sociale e/o a un’organizzazione di beneficenza e questo a Bethany è venuto dal suo background in Belle Arti e allo studio dei vecchi filosofi che vedevano l’arte e il processo creativo come mezzi di forte impatto sociale.

Per esempio, tra le sue collaborazioni fisse c’è quella con Making for Change, programma di formazione e produzione di moda all’interno del carcere femminile HMP Downview, che mira ad aumentare il benessere e ridurre i tassi di recidiva tra le partecipanti dotandole di competenze e qualifiche professionali. E poi c’è il network di cooperative sociali italiane che fanno capo a Mending for Good, il cui lavoro è presente anche nell’ultima collezione della designer, ‘The Hands that Heals Us’, presentata l’altro ieri al London Design Museum.

Mending for Good, che ha un approccio originale nell’affrontare la sfida degli scarti e collabora con produttori tessili, designer e brand del lusso per trovare soluzioni circolari creative, è intervenuta per la ricerca e lo sviluppo della sezione maglieria, caposaldo nelle collezioni della Williams, coordinata dalla fondatrice e designer Barbara Guarducci e realizzata a mano da Manusa, una delle cooperative del network, con l’unione di varie tecniche: uncinetto, patchwork e intarsio.

La maglieria, caposaldo del lavoro di Bethany Williams – courtesy Bethany Williams

‘The Hands that Heals Us’ celebra la comunità dei ‘Maker’, ovvero dell’artigianato, della creatività e delle piccole comunità di produzione sul cui lavoro la Williams costruisce da sempre le proprie collezioni: “L’obiettivo principale di questa collezione, spiega la designer, sono le molte mani che toccano i nostri vestiti durante tutto il processo di realizzazione, attraverso l’integrazione di elementi artigianali e fatti a mano, sotto forma di tessitura, maglieria, stampa, patchwork e ricamo. La vita di ogni capo passa con delicatezza per le mani della nostra intricata catena di approvvigionamento e per questo proviamo un’immensa gratitudine per i nostri artigiani, i nostri strumenti e il nostro team”.

La collezione vede inoltre il debutto della linea denim, in questo caso fornito da ISKO, con una base principale di cotone e canapa organici e riciclati; compresi anche bottoni svitabili in metallo, in modo che siano facilmente rimovibili per continuare il ciclo di vita del capo, poiché i bottoni fanno parte di quelle minuterie che possono spesso rappresentare un ostacolo nel processo di riciclo.

Sempre grazie alla partnership con Mending for Good, la collezione si avvale anche dell’apporto del laboratorio artigianale di San Patrignano, che ha collaborato per una delle due borse della collezione con il proprio caratteristico tessuto intrecciato effetto simil-pelliccia.

La borsa realizzata in collaborazione con il laboratorio di San Patrignano

L’organizzazione di beneficenza scelta da Bethany Williams per questa stagione è il British Crafts Council, con cui la designer svilupperà una serie di workshop e programmi che puntano, tra il resto, a generare e ispirare una nuova generazione di maker.

Come diventare ‘Fashionisti consapevoli’

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Di libri dedicati alla moda etica, negli ultimi anni, ne sono usciti parecchi; con approcci diversi, gli autori cercano di fare chiarezza e dare informazioni su un tema che per molti aspetti ancora chiaro non è e questo perché il termine ‘sostenibilità’, che fa un po’ capo a tutto, non solo è molto generico ma è diventato ormai così inflazionato, nella bocca di tutti, che si è perso di vista il suo vero significato, in particolare se applicato al complesso sistema della moda.

Qui a eco-à-porter abbiamo parlato ad esempio di ‘La rivoluzione comincia dal tuo armadio’ di Marina Spadafora e di ‘I vestiti che ami vivono a lungo’ di Orsola de Castro, consapevoli che ognuno di essi potesse dare un apporto alla conoscenza del mondo della moda e del suo rapporto con le sfide legate alla sostenibilità.

Oggi è il momento di ‘Fashionisti consapevoli’ di Francesca Rulli, edito da Flaccovio, libro che, se l’educazione alla moda sostenibile diventasse materia di studio, potrebbe essere adottato come manuale, perché fornisce in modo chiaro e snello, senza mai cadere nel didascalico, informazioni preziose ma anche strumenti e dritte per farsi qualche domanda e trovare anche delle risposte valide sulla sostenibilità della filiera della moda.

Il mio intento qui, data la grande quantità di importanti dati contenuti nel libro, è quello, non solo di darvi un’idea di come la Rulli scelga di accompagnare il lettore nei vari passaggi di una filiera lunga e articolata ma anche di invogliarvi a leggerlo, questo volume, perché vi sarà di aiuto, come lo è stato per me, a districarvi in una fitta trama in cui si intersecano leggi, disposizioni, processi, materiali, ecc, che vanno prima di tutto compresi, sia singolarmente sia nel complesso in cui si interfacciano.

Francesca Rulli

Intanto posso dirvi chi è Francesca Rulli, solido background nel campo dell’ingegneria dell’organizzazione e del business process management, CEO della società di consulenza da lei stessa creata Process Factory e fondatrice nel 2013 di 4sustainability, marchio registrato che garantisce le performance di sostenibilità della filiera del fashion & luxury, oltre che consulente di Zero Discharge of Hazardous Chemicals (ZHDC), il più importante sodalizio internazionale di brand e aziende della filiera moda impegnato nella riduzione delle sostanze chimiche dei processi produttivi.

Con queste premesse e competenze in ‘Fashionisti consapevoli’ Francesca butta giù un vademecum per orientarsi nella moda sostenibile, con la necessità di fare innanzitutto chiarezza in un panorama confuso in cui, soprattutto il consumatore, ha bisogno di “analisi veritiere e affidabili” come scrive Matteo Marzotto nella prefazione, di “consapevolezze possibili che creino priorità e quindi cambiamenti”. Non serve e non esiste nemmeno, dice la Rulli, “una lista della spesa che ci dica in maniera inequivocabile cosa è sostenibile e cosa non lo è”, insomma nessuna “soluzione magica” ma piuttosto “condizioni per farsi le domande giuste” e, come dicevamo prima, trovare anche delle risposte.

Quindi aiuta prima di tutto dividere la macro-area della sostenibilità in tre ‘micro’-aeree che sono quella ambientale, sociale ed economica, che il mondo della finanza denomina con la sigla ESG ovvero environmental, social e governance, in cui la governance è il collante di tutte e tre le sfere, è il modello economico che spinge a credere “nella meritocrazia, nell’equa rappresentanza di genere e delle minoranze, nel contrasto a ogni forma di corruzione, nelle retribuzioni eque e dignitose.” Sappiamo che poi in realtà, garantire questo equilibro, quindi una buona governance, è difficile, soprattutto in certe aree del mondo.

Tante sono poi le pagine dedicate agli aspetti legislativi, alla gestione delle sostanze chimiche, all’impegno che gruppi, associazioni, brand hanno preso per affrontare le varie tematiche in modo mirato, come Global Fashion Agenda, nata dal Copenhagen Fashion Summit, che pubblica ogni anno la CEO Agenda, report che passa in rassegna le questioni più urgenti che l’industria della moda deve affrontare.

Imprescindibili le certificazioni, ognuna col proprio logo e definizione in tabella, cui è importante, scrive Francesca, “considerare e valorizzare per quello che sono, cioè un segnale, non certo una panacea” ovvero che se il prodotto di un brand riporta in etichetta un dato standard, non è detto che poi ogni singolo parametro di quello standard sia stato rispettato. Però ci dà un’idea sull’impegno di quel brand.

Hakan Karaosman

Incisivo l’intervento di Hakan Karaosman, ricercatore dell’University College Dublin, esperto di sostenibilità nella supply chain della moda, che parla del problema della sovrapproduzione, dell’importanza del dialogo sociale dando la possibilità ai consumatori di essere parte delle soluzioni ma anche del fatto che “piaccia o no, la filiera della moda è globalizzata e lo rimarrà”, perché sarebbe una catastrofe economica se da un giorno all’altro, per magia, le filiere dei grandi marchi scomparissero da Paesi come Bangladesh e Vietnam. Come si sostenterebbero milioni di famiglie? Il discorso è: siano i brand più responsabili!

E poi consigli su film e documentari tematici, su come riconoscere e difendersi dal fenomeno del greenwashing, su come dare un’informazione sostenibile (coinvolti anche noi giornalisti, ops!) e definizioni di tanti termini che ormai dobbiamo imparare a conoscere: LOHAS, compliance, social washing, Tier (alcuni non li conoscevo nemmeno io, ve lo assicuro).

‘Dal materiale al prodotto’, infine, è un excursus ben articolato sui vari materiali con i loro vantaggi, punti critici e alternative, perché “ogni fibra ha le sue peculiarità e si presta per alcuni usi e non per altri”; fondamentale qui l’apporto di Textile Exchange, organizzazione che svolge un’imponente ricerca sulle materie prime tessili, aggiornando i dati ogni anno e illustrando i progressi delle fibre ‘preferred’, cioè con attributi di sostenibilità.

Concludendo Francesca non disdegna anche qualche dritta per un guardaroba più sostenibile, con domande mirate da porsi al momento dell’acquisto, una tra tutte “quante volte lo userò?” (ponetevela sempre questa domanda, soprattutto quando siete presi da raptus compulsivo!) e ci aiuta a districarci anche sull’interpretazione dell’etichetta, lavaggio compreso.

Ve l’avevo detto che ‘Fashionisti consapevoli’ non è soltanto un libro ma un manuale, solo scritto con un linguaggio semplice, scorrevole, divulgativo senza essere ‘accademico’, un lavoro articolato ma fruibile da tutti e che, alla fine, ci lascia chiaro e ineludibile un messaggio: siamo noi consumatori ad avere un ruolo fondamentale per far si che la moda intraprenda quel percorso verso la sostenibilità in modo sempre più trasparente e credibile. Come? Informandoci, non smettendo di farci e fare domande, pretendendo di trovare le informazioni necessarie per fare scelte consapevoli. Soltanto così “spingeremo l’intero sistema produttivo a correggersi e ad accelerare la corsa verso la riduzione di impatto. Qualsiasi cambiamento può spaventare e questo non fa eccezione. Ma è una sfida per cui vale la pena di lavorare fianco a fianco, tutti insieme”.

Re-love, l’upcycling in abito da sposa

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Giuro che non l’ho fatto apposta, poi manco mi piace giurare, a essere sincera. Però qui ci sta, perché solo adesso che ho scelto il primo argomento del 2022, mi accorgo che anche il primo articolo dell’anno scorso aveva come oggetto Mending for Good, l’agenzia di consulenza fondata dalla designer Barbara Guarducci, che offre soluzioni etiche e creative per la sovrapproduzione e gli scarti dei brand del lusso.

Allora il tema riguardava una open call che Mending for good rivolgeva a cooperative e realtà artigianali italiane operanti nel tessile, stavolta parliamo di una collaborazione che l’agenzia ha sviluppato con Atelier Emé, marchio che crea e produce abiti da sposa e da cerimonia sartoriali.

Non avevamo ancora parlato di abiti da sposa, quindi ben volentieri, soprattutto perché da questa collaborazione è nata Re-Love, una capsule collection di wedding dress provenienti dall’archivio di Atelier Emé rielaborati con Mending for Good con la tecnica dell’upcycling coniugata all’alto artigianato.

Si tratta in tutto di sedici abiti da sposa, dieci sviluppati appunto con l’agenzia e sei creati internamenti dall’ufficio stile dell’Atelier, una “fusione armonica e fatata di passato e presente”, un re-work frutto di un progetto/processo di trasformazione avvenuto seguendo principi di circolarità.

I capi scelti sono stati decostruiti e ricostruiti nei laboratori dell’Atelier Emé, mentre mending for good si è occupata di fornire soluzioni di re-purposing attraverso varie tecniche come la pittura su tessuto eseguita da Karl Joerns dell’Atelier La Serra MK textile di Firenze, i ricami a mano eseguiti da Donatella de Bonis e le decorazioni, sempre a mano. Un upcycling che si può definire ‘fiabesco’, raggiunto attraverso un lavoro sinergico che ha unito competenze altamente specializzate e savoir-faire artigianale, per creazioni da sogno, romantiche, ricche di disegni variopinti, bouquet acquerellati, applicazioni tridimensionali e ricami ton-sur-ton.

La collezione Re-love è la dimostrazione che la creatività circolare può essere applicata anche al settore wedding e non solo; gli abiti da sposa di questa capsule collection sono frutto di un percorso formativo legato a workshop organizzati da Mending for Good, che ha coinvolto i laboratori artigianali di San Patrignano per la pittura su tessuto e la cooperativa sociale Manusa per il ricamo handmade.

Re-love è disponibile in esclusiva dal 14 dicembre scorso nell’atelier Emé di Milano, in Vicolo Giardino 1.

L’alpaca, ‘la fibra degli dei’ che unisce due mondi

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Uno dei motivi per cui ho aperto questo blog è perché sono convinta sostenitrice dei diritti degli animali, per una moda cruelty-free come dovrebbe essere quella etica, di cui parliamo e che diffondiamo a eco-à-porter. La moda che intendo io non può prescindere da questo aspetto ovvero dalla cura e dal rispetto per ogni essere vivente, quindi, quando scelgo di parlare di un marchio che fa uso di materiale di origine animale, mi assicuro che esso non derivi da maltrattamenti e privazioni.

Di lana di alpaca ho già parlato e oggi come allora ne torno a scrivere con la storia di Donatella e Roberto, fondatori proprio quest’anno di Luxalpaca, progetto nato nel 2019 durante un viaggio in Perù, che ringrazio perché mi danno l’opportunità di soffermarmi maggiormente sul materiale e sulla sua provenienza, che viene appunto dall’alpaca, un simpatico camelide originario delle Ande.

Presso il distretto di Chinchero, nella regione di Cusco, ex capitale dell’impero Inca, Donatella e Roberto scoprono la lavorazione della lana d’alpaca, antichissima tradizione che secondo gli storici risale al 4000/5000 a.C. e che ancora oggi rappresenta per le comunità locali un’importante fonte di sostentamento, soprattutto in relazione alla fibra pregiata che se ne ricava.

L’alpaca è parte essenziale della cultura andina, il suo legame con la simbologia Inca rimane forte e immutato anche nel presente ed è sinonimo di rispetto per la natura e la vita; questi animali pascolano liberamente sulle Ande ad altitudini comprese tra i 3500 e i 5000 slm, si cibano di piante che crescono spontaneamente, anzi, spezzandone gli steli delicatamente ne favoriscono perfino la ricrescita, e riescono a sopravvivere a condizioni metereologiche estreme proprio grazie alle proprietà isolanti del loro vello, che viene tosato una volta all’anno, tra novembre e marzo, quando là è estate, con tecniche cruelty-free che non causano dolore all’animale.

I due tipi di Alpaca: Haucaya, la varietà più comune, con vello voluminoso e riccio e un’ampia gamma di colori naturali;
Suri, rappresenta il 15% della popolazione di Alpaca, ha la fibra liscia e dritta dall’aspetto setoso e dall’elevata elasticità.

E Luxalpaca nasce proprio dall’affascinante tradizione tessile millenaria peruviana unita a quella del design italiano, con l’economia di un Paese che sostiene quella dell’altro, con una comunità locale, quella peruviana, che può sostentarsi seguendo quelle che sono le proprie naturali inclinazioni, con una produzione il più artigianale possibile, interamente delineata con gli artigiani del posto, che consigliano anche le tinte più adeguate ricavate da erbe, fiori e frutti, a seconda della disponibilità e della stagione in corso. Sono infatti nove i toni puri e più di altre venti le tonalità naturali che rendono superflua la tintura industriale.

La prima collezione di Luxalpaca è stata ispirata dalla Chakana, simbolo millenario presente nelle culture più antiche del Perù e poi durante il grande impero Inca; il termine ‘Chakana’ deriva dal Quechua, la lingua Inca, parlata tutt’oggi nei territori andini e significa letteralmente ‘ponte verso l’alto, un ponte che conduce al sole ma c’è anche la possibilità di un’altra origine ovvero ‘Tawa Chakana’, ‘quattro scalini’, a indicare comunque un collegamento tra la luce e l’oscurità dei mondi. Al di là dei significati letterali, ‘Chakana’ è dualità, è l’anello di congiunzione del mondo terreno con l’ultraterreno, ma anche della Terra con il Sole, dell’uomo con Dio.

Si potrebbe fare riferimento alla scelta della Chakana come prima collezione sia perché è il simbolo più emblematico della cultura Inca, ma anche per il concetto di dualità come il Perù e l’Italia, due culture che si fondono per dar vita a un prodotto unico.

Non è un caso che, sempre gli Inca, chiamassero la fibra d’alpaca ‘fibra degli dei’, grazie a qualità che si sono mantenute tali nel tempo: leggerezza, morbidezza, elasticità, resistenza, lunga durata, insieme a proprietà termiche e ipoallergeniche, che si ritrovano nei capi poi realizzati.

Luxalpaca possiede anche la certificazione AIA, che garantisce ai clienti di acquistare prodotti di vera lana di alpaca peruviana 100% e fa parte della International Alpaca Association (IAA), un’organizzazione privata senza fini di lucro nata nel 1984 per promuovere e proteggere l’immagine della fibra di alpaca e dei prodotti realizzati con essa attraverso la diffusione e l’uso corretto del marchio Alpaca Origin Mark.

Tutte le immagini courtesy @Luxalpaca

Qui sotto la testimonianza di Walter, rappresentante della comunità di Chinchero – Cusco di cui ho parlato nel testo:


Filpucci, la sostenibile leggerezza dei filati

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L’argomento di oggi è la prosecuzione ideale di ciò di cui abbiamo parlato nell’articolo di ‘riapertura’ del blog, dedicato al documentario di Silvia Gambi e Tommaso Santi ‘Stracci‘, sul percorso virtuoso che i ‘rifiuti’ tessili fanno per trasformarsi in nuovo filato in quel di Prato.

Perché tra le aziende pratesi che si occupano di rigenerazione dei tessuti c’è Filpucci, fondata nel 1967 da Leandro Gualtieri come Industria Filati Pucci, oggi diretta dal figlio Federico, che ho il piacere di avere come ospite per una chiacchierata sull’attività e i prodotti di una realtà che si è impegnata nella sostenibilità fin dall’inizio.

Federico Gualtieri, presidente di Filpucci

Federico, la vostra è una delle aziende storiche di Prato, conosciuta soprattutto per la produzione di filati di alta qualità e negli ultimi anni anche per la rigenerazione dei filati di lana e cachemire. Questo rappresenta un importante elemento legato alla sostenibilità, che praticate da quando avete aperto, nel 1967. Ma quali sono stati, negli anni, altri passi fatti su questo percorso?

Filpucci da sempre presta grande attenzione al tema della responsabilità e al processo di produzione; per noi la qualità è una cosa seria e un prodotto di qualità deve necessariamente seguire determinati criteri. Siamo impegnati nella costruzione di una strategia di sostenibilità da molti anni, ma l’abbiamo vissuto come un passaggio naturale e necessario, perché questo impegno rafforza i nostri valori. Adesso siamo impegnati sul tema della rigenerazione all’interno del progetto Re-Verso (supply chain integrata, trasparente, tracciabile e certificata di cui l’azienda è partner) che sta riscuotendo un interesse sempre maggiore da parte del mercato. Ma siamo anche dotati delle principali certificazioni dei materiali e misuriamo le nostre performance con l’indice Higg, standard per valutare la sostenibilità ambientale e sociale lungo tutta la catena di approvvigionamento. Per non parlare della tracciabilità: raccontare la storia dei nostri prodotti dalla fibra al gomitolo è per noi un motivo di vanto.

Sul vostro sito scrivete che “non si può parlare di sostenibilità se non c’è una seria misurazione degli impatti”; puoi fornirci qualche dato relativo all’impatto ambientale di un filato rigenerato paragonato a uno realizzato con materia prima vergine generica? Quali risparmi ci sono?

La misurazioni degli impatti è fondamentale per dare sostanza a una strategia di sostenibilità ed è soprattutto anche l’unico modo per impostare degli obiettivi di miglioramento. Per questo abbiamo effettuato una analisi Lyfe Cycle Assessment (LCA), sul ciclo di vita del prodotto, facendo una comparazione rispetto agli stessi prodotti realizzati con materiali vergini: siamo partiti dalle nostre collezioni più iconiche ed è emerso che c’è un risparmio di energia del 75%, di acqua del 98% e del 90% di CO2. Adesso abbiamo pensato di estendere l’analisi anche ad altri prodotti della collezione: è giusto che i clienti abbiano dati concreti per comprendere i risvolti positivi delle proprie scelte.

Direi una bella differenza! Ma siete coinvolti anche nell’arte contemporanea e nel design e collaborate spesso con artisti e designer, come è successo recentemente con Gucci. In cosa consiste la collaborazione? E che ruolo hanno i vostri filati?

Filpucci ha da sempre mostrato una grande attenzione nei confronti del mondo dell’arte e del design: per creare cose belle, dobbiamo nutrirci di bellezza. La collaborazione con i giovani designer è fondamentale per avere stimoli nuovi, perché da questi progetti riusciamo ad aprirci ai nuovi trend. Collaboriamo con Feel The Yarn, mettendo a disposizione i nostri filati per i progetti dei designer, collaboriamo con le scuole di moda, sosteniamo anche le iniziative di singoli creativi: ognuna di queste collaborazioni ci regala uno sguardo nuovo sul prodotto. E’ stata molto importante la collaborazione con Gucci Vault, una piattaforma creata dal brand e aperta ai giovani creativi, che ci ha dato la possibilità di collaborare con designer di alto livello: Gui Rosa e Rui Zhou hanno interpretato in maniera assolutamente originale i nostri materiali, dai mohair alle viscose.

A proposito di artisti, ho letto che nel 1983 Filpucci ha collaborato anche con Andy Warhol: cosa avete realizzato insieme?

Mio padre, Leandro Gualtieri, incontrò Andy Warhol a New York e gli chiese di realizzare per l’azienda un bozzetto che avrebbe potuto usare per le campagne pubblicitarie, la famosa rocca che ancora è visibile in azienda. Grazie a quell’incontro qualche mese dopo Warhol organizzò insieme a Filpucci una mostra a Milano dove vennero esposti i ritratti che l’artista aveva fatto agli stilisti più famosi dell’epoca: Krizia, Coveri, Armani, Valentino. Erano tempi diversi, ma la contaminazione tra il mondo della moda e l’arte è importante per l’evoluzione del prodotto.

Abbiamo parlato di passato, presente e futuro: cosa c’è nel vostro, soprattutto a livello di sostenibilità, oltre agli impegni già presi?

Il nostro obiettivo è di realizzare le nostre collezioni solo con materiali certificati e tracciati. Su alcuni materiali siamo già molto avanti, su altri ci stiamo lavorando, ma in ogni caso a oggi il 50% delle nostre collezioni sono realizzate con materiale certificato. Vogliamo anche lavorare sul tema del benessere aziendale: la nostra produzione viene fatta molto internamente, ma vogliamo che siano garantiti gli stessi standard anche alle aziende che fanno parte della nostra catena di fornitura. La condivisione di certe scelte è il modo migliore per andare avanti tutti insieme.

E mi sembrano ottime premesse e promesse. Grazie Federico, non solo della disponibilità ma anche per aver spiegato ai miei lettori cosa significa per un’azienda impegnarsi davvero nella sostenibilità, un lavoro complesso, lungo e articolato fatto di fasi e passaggi imprescindibili e importanti.

2021: questa è l’estate delle sirene 🧜🏼‍♀️

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Come ogni inizio estate, qualche suggerimento sul beachwear va dato, ovviamente in chiave sostenibile. Abbiamo sempre scelto con cura i marchi di cui parlarvi e molti di questi avevano, hanno, come materiale di punta l’ECONYL che, ormai lo sappiamo, non è altro che il nylon rigenerato dalle reti da pesca e da altri scarti pre e post-consumo.

Certo, l’ECONYL non è l’unico tessuto che si può utilizzare per produrre costumi da bagno etici; c’è chi, ad esempio, ha avuto l’idea di ricorrere alla lycra di recupero, rimanenze aziendali di ottima fattura per bikini e interi in stile retro.

Come Sirene Ethical Beachwear, brand nato da pochi mesi a Bologna da due creative che hanno già all’attivo, ognuna, un proprio marchio auto-prodotto: Lucia Chiodi, sarta e designer lombarda trapiantata nel capoluogo emiliano da 20 anni, fondatrice di Makomako e Carlotta Fiorini, stilista bolognese con il suo Animanili.

Era da tempo che Lucia e Carlotta, che si conoscono perché fanno entrambe parte di RiSalto, associazione culturale e bottega creativa fondata e condotta da 10 artigiane che propongono i propri progetti nel cuore di Bologna, pensavano a una linea di beachwear sostenibile e dopo varie prove e rimandi dovuti ai rispettivi impegni, senza contare il blocco legato alla pandemia, hanno lanciato Sirene Ethical Beachwear a marzo di quest’anno (le ho avute ospiti durante una delle dirette della Fashion Revolution week di fine aprile).

Retro, ironici e femminili, i costumi da bagno sono appunto realizzati con Lycra recuperata da aziende della zona, perciò si tratta di pezzi unici che le due creative, dopo averli progettati e disegnati, hanno fatto cucire a SocialChic Design, laboratorio sartoriale che lavora per l’integrazione e la valorizzazione di persone in svantaggio sociale, soprattutto donne, madri e migranti.

I modelli guardano a decadi passate ma con linee moderne e accattivanti, come le fantasie, che vanno dal floreale all’animalier alle righe, in accostamenti cromatici e dettagli originali, spesso intercambiabili, come i laccetti del bikini ‘Miss ’60’, che possono essere sostituiti con un paio di un altro colore.

C’è il due pezzi ‘Miss ’50 variante Daisy’ con le sue suggestioni orientali date da maxi-motivi floreali a contrasto su base nera, l’intero ‘Miss 70 variante Monet’ in lime e verde foresta e tanti altri che potete vedere e scegliere sulla pagina Facebook del marchio.

Oltre ai modelli già disponibili, Lucia e Carlotta hanno a disposizione altre fantasie che, su ordinazione, possono essere scelte per realizzare il modello preferito e, se vi trovate a Bologna o nei dintorni, potete passare direttamente per farvi aggiustare il costume addosso.

Anche il packaging è sostenibile e handmade; si tratta di confezioni realizzate con la stessa Lycra, accompagnate da cartellino disegnato da Carlotta Fiorini, insomma tutto a mano, tutto auto-prodotto, tutto pronto per un’estate da … sirene!

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