Sarah Hermez and Caroline Simonelli

Ringrazio sempre questa rubrica mensile perché mi fa incontrare e interagire con persone straordinarie da tutti gli angoli del mondo; il mese scorso Huda Baroudi di Bokja Design ha ‘nominato’ come ospite dell’intervista di marzo Sarah Hermez, designer libanese e fondatrice di ‘Creative Space Beirut‘, scuola gratuita di fashion design che ha sede a Beirut e che offre una formazione di qualità a ragazzi talentuosi che non hanno però le risorse per studiare presso istituti che hanno rette molto costose.

L’intervista con Sarah è stata fonte per me di approfondimento ulteriore sul significato del termine ‘sostenibilità’, in questo caso legata non solo alle pratiche del fare moda etica ma anche e soprattutto a creare quelle condizioni per cui chi ha passione e talento per questo settore possa esprimerli superando le barriere di classe e di condizioni economiche. Ma lascio la parola a Sarah che sa meglio di me raccontare il come e il perché delle sue scelte ‘creative’, diventate anche ‘di vita’.

Sarah, ho letto che hai studiato alla Parsons a New York; che cos’è che ti ha fatto tornare a Beirut per aprire ‘Creative Space Beirut’?

Quando ero a New York facevo una doppia specializzazione, cioè studiavo fashion design alla Parsons e media e cultura alla Eugene Lang; era la combinazione perfetta di ciò che amavo di più. Alla Parsons ho scoperto il mio potenziale creativo e ho incontrato il mio mentore e co-fondatore di ‘Creative Space Beirut’, Caroline Simonelli, mentre alla Eugene Lang ho fatto alcuni programmi di studio all’estero; sono andata a Dharamsala, in India, ho vissuto con una famiglia di rifugiati tibetani e studiato politica tibetana. Sono stata anche in Cambogia. Queste esperienze hanno cambiato radicalmente il modo in cui vedevo il mondo e il lavoro che volevo fare nella mia vita. Dopo il mio ritorno a New York ho capito che non volevo fare moda giusto per il gusto di farla, bensì volevo trovare un modo per unire le mie due passioni: creatività e giustizia sociale. Così ho deciso di trasferirmi a Beirut perché sono libanese e non avevo mai vissuto in Libano, c’è così tanto lavoro da fare in Libano, quindi la mia scelta aveva senso. E così è nato ‘Creative Space Beirut’.


Creative Space Beirut location in Beirut Souks

Ti va di parlarmi delle attività della scuola e se ci sono corsi relativi al design sostenibile? So che gli studenti progettano collezioni che vengono esposte e vendute in mostre pubbliche alla fine dell’anno, è una bella cosa..

Caroline Simonelli and Hazem Kais working

‘Creative Space Beirut’ ha un programma triennale di fashion design; cerchiamo persone provenienti da tutto il Libano che siano talentuose, dedite, appassionate ma che non hanno le risorse per perseguire un’istruzione e offriamo loro un’educazione completamente gratuita. Abbiamo creato un percorso diversificato e completo, che offre corsi di modellistica, drappeggio, illustrazione, inglese, storia della moda e fashion business. Gli studenti collaborano anche progettando collezioni e avvicinandosi al settore produttivo, che fornisce loro una comprensione realistica del settore. Gli studenti del secondo e del terzo anno lavorano su collezioni che vengono poi presentate in una sfilata di moda e vendute e i ricavi servono a sostenere la scuola. I tessuti utilizzati sono donati da marchi come Donna Karan, Derek Lam, Diane Von Furstenberg (grazie ai contatti con la Parsons), nonché da designer e distributori locali, il che significa che lavorano con tessuti di alta qualità provenienti da vecchi stock. Gli studenti lavorano anche su progetti di upcycling e frequentano alcuni workshop sul design etico.


Creative Space Beirut 2017 student fashion show

La domanda che sto per farti l’ho rivolta anche anche alle mie due ospiti precedenti, Sass Brown e Huda Baroudi: quale approccio hanno i creativi della tua città con la sostenibilità? Mi interessa non solo perché questo è un blog di eco-moda, ma anche perché credo che il tuo Paese sia un ricco crocevia di culture e influenze e dai miei primi approcci mi è sembrato di capire che c’è molta apertura e fermento creativo.

Il Libano è sicuramente un Paese che stimola la creatività, forse proprio per le sfide che affronta. Ma è anche un Paese che causa molta frustrazione, a causa di difficoltà legate alla vita di tutti i giorni e di cui si farebbe volentieri a meno. Tende a instillare disperazione, un senso di paralisi. Nei miei sette anni qui, ho assistito alla crescita del settore creativo, alla nascita di collaborazioni ma ho anche visto molti creativi lasciare il Paese alla ricerca di un futuro più stabile e sostenibile. Il mercato in Libano è piccolo ma in crescita. Non ci viene fornito molto aiuto dal governo, ma siamo supportati da enti privati e sostenitori. Ci vogliono resistenza e perseveranza per sopravvivere qui, tuttavia vedo un sacco di gente con idee simili che si unisce e usa il design come mezzo per affrontare i problemi legati a queste mancanze.

Sai, Sarah, aprendo questo blog ho avuto e ho ancora la fortuna di conoscere persone e realtà legate al mondo sostenibile e mi rendo sempre più conto che queste realtà sono sfaccettate e che il termine stesso di “sostenibilità” ha significati diversi. Nel caso della tua scuola, gratuita e aperta a coloro che non possono permettersi una retta scolastica, penso che significhi anche pari opportunità. Cosa ne pensi?

Decisamente. Noi trattiamo di sostenibilità da tanti punti di vista. Sostenibilità significa anche un’economia locale autosufficiente e la creazione di un ambiente in cui i talenti possano prosperare. Oggi viviamo in un mondo in cui tasse scolastiche e corsi di laurea sono così costosi che la maggior parte delle persone talentuose viene tagliata fuori dal mondo del fashion design. C’è tanto talento sprecato in Libano e noi crediamo nel potere della libera istruzione che crea equilibrio e pari opportunità. Sfortunatamente, il nostro governo è intrappolato in uno stallo politico ed è così corrotto che ci fornisce a malapena i bisogni di base, si lotta anche per l’acqua e l’elettricità qui.

Creative Space Beirut student exhibition at
Dar El Nimer in 2016

Per costruire questa scuola gratuita, la sostenibilità intesa in senso più ampio era il nostro primo problema. Come possiamo sopravvivere? Come possiamo crescere? Oltre a vendere le collezioni realizzate dagli studenti, abbiamo lanciato i nostri marchi interni, di cui una percentuale dei profitti va alla scuola. In questo modo, possiamo raggiungere l’auto-sostenibilità attraverso la vendita dei nostri prodotti. Questi marchi servono anche come piattaforma per assumere studenti dopo la laurea, oltre a fornire loro uno spazio per avviare la propria carriera. Produciamo anche al 100% localmente, supportando sarti e artigiani del Paese e assicurando pratiche etiche in tutto il processo di produzione. Per sostenere la scuola, abbiamo costruito un eco-sistema che va dall’istruzione all’occupazione.


Hazem Kais-Creative Space Beirut student working on collection

Uno splendido esempio di economia circolare Sarah! So che hai anche il tuo marchio, SECONDO St che a questo punto immagino sia uno dei marchi ‘interni di cui parli’. Puoi dirmi come e quando è nato, che tipo di linea fa, ecc.?

Sì, Second St è uno dei nostri marchi interni, di cui una percentuale di profitti torna appunto alla scuola! Second St è stato concepito in 2nd St, Alphabet City, New York, dove io e la mia partner Tracy Moussi vivevamo mentre frequentavo la Parsons. Disilluse dal mondo della moda, la cui natura è ferocemente influenzata dal consumatore, abbiamo deciso di creare un percorso alternativo attraverso cui la produzione di una linea urbana e dinamica potesse aiutare a promuovere il talento dei designer emergenti. Quindi abbiamo ideato un piano per sostenere l’educazione creativa gratuita di questi ragazzi, in collaborazione con ‘Creative Space Beirut’, avviando poi una collaborazione con il designer George Rouhana. Così Second ST. è nato a Beirut, ponendosi come marchio socialmente consapevole con un tocco giocoso che reinterpreta la classica camicia. Anche in questo caso, utilizziamo vie di produzione locale per garantire pratiche etiche e sostenere l’economia locale.

Bene Sarah, la nostra intervista è giunta al termine; non sai come mi ha fatto piacere conoscerti, è confortante sapere che in questo settore ci siano persone che vanno oltre la logica di profitti e tendenze. D’altronde non si chiamerebbe moda sostenibile se non avesse come base principi e valori che tengono conto del benessere altrui, che sia uomo, ambiente o animale.

Non chiedo a Sarah Hermez di ‘nominare’ il prossimo ospite perché ad aprile e di preciso il 23 aprile, giorno consueto di uscita de ‘L’intervista del mese’, comincia la Fashion Revolution Week e ci sarà un’ospite (italiana!) a rappresentarla…non vi svelo di più, seguiteci e lo scoprirete!

 

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